Un’obiezione che si sente spesso fare dalla generazione che oggi guida il Partito a quella più giovane è che non esiste un gruppo di nuovi dirigenti pronto per mettere in discussione l’esperienza e la credibilità di quelli più anziani. In parte questa affermazione è vera, infatti, negli ultimi 15-20 anni ogni nuovo militante o dirigente che dimostrasse di avere i numeri per mettere in discussione lo status quo è stato sistematicamente eliminato. Quanti quarantenni ci sono in ruoli di responsabilità politica?
Facendo terra bruciata attorno a se molti dirigenti nati con il ’68 e con il ‘76 hanno allontanato un’intera generazione di persone che, anche a causa della precarietà del lavoro (e della conseguente ambizione a crescere innanzitutto professionalmente), sono scomparsi nel mare della disaffezione e della delusione.
Chi 30, 40 anni fa (da giovane) ha preso d’assalto il Partito dall’interno con lunghe e sanguinose battaglie, poi vinte, oggi crede che le nuove generazioni debbano fare la stessa fatica. Non si sono accorte che in questo momento storico sono molti di più gli stimoli che portano i ragazzi a mollare tutto rispetto a quelli che inducono la voglia di condurre grandi battaglie ideali. Il risultato finale è che esiste una generazione che eternamente rappresenta “il futuro” ed un’altra che siede comoda ed indisturbata sul presente, con tutte le conseguenze che la sua inadeguatezza comporta. Ecco quindi la prima schiera di protagonisti mancati: i bruciati, i delusi da questa politica.
Ci sono anche persone giovani che fanno carriera al fianco di politici di lungo corso. Il loro turno non arriva mai ma nel frattempo accrescono le loro relazioni, stando all’ombra di esponenti che hanno prodotto due nuovi partiti (o forse 3, per ogni radice storica). Molti di questi giovani non hanno originalità perché si muovono emulando i loro maestri e ne seguono ogni orma.
Ma chi sono i trentenni (o i ventenni )di oggi? Sono uguali a quelli di ieri? Chi è entrato nel mondo del lavoro senza tutele, chi sa già che non avrà una pensione, chi ha studiato o lavorato all’estero per avere più opportunità, chi è nato in Italia da una famiglia di stranieri, tutte queste persone hanno imparato a nuotare controcorrente. Ben diversa è la situazione di chi aveva un futuro garantito (nel Partito, come nella cooperazione). Tra l'altro teniamo presente che quasi tutti i giovani che hanno ruoli nel PD oggi sono laureati, hanno fatto master, viaggiato ed hanno una formazione decisamente diversa da quella di tanti nostri dirigenti più anziani.
Questa generazione oggi la troviamo nei Circoli del PD del territorio, in tanti luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università e, talvolta, l’abbiamo messa in bella vista nelle liste elettorali (rigorosamente in coda) allo scopo di apparire più nuovi di quello che eravamo.
Anche nelle ultime elezioni politiche abbiamo riempito le liste di persone con queste caratteristiche. Peccato che al di là di qualche operazione simbolica (non sempre compresa dall’elettorato) la stragrande maggioranza degli eletti (e la totalità di quelli con ruoli decisionali) ha molti anni alle spalle in parlamento e non rappresenta nulla di nuovo.
Dopo un certo numero di anni si perde l’entusiasmo e si tende ad assomigliare sempre più a chi siede dalla parte opposta dell’emiciclo. È giunto il momento che i giovani che rappresentano “il futuro” smettano di essere tali ed inizino ad essere il presente. Tuttavia parlare di rinnovamento della classe dirigente non basta e serve mettre sul tavolo anche i contenuti, una visione. Parlo di visione e non solo di programmi perchè i programmi non bastano a fare sognare le persone. Un buon programma di governo, per quanto serio, credibile e forte, non basta a far credere nella politica le persone.
Le dichiarazioni del Presidente Obama e, più in generale il suo programma, sono "una rivoluzione copernicana" perché riportano al centro della riflessione "l'uomo", i suoi bisogni, il destino comune e una piena realizzazione della "democrazia" così come è enunciata nelle diverse carte costituzionali moderne. Non c’è nulla di nuovo da inventare rispetto all'eredità che ci ha consegnato la storia ed è sufficiente proseguire su un cammino da tempo interrotto.
La storia dei partiti di massa italiani è piena di “sogni”. Il sogno di un mondo democratico e libero dalla guerra ha mosso la generazione della resistenza. Il sogno di un mondo in cui tutti potessero avere le stesse opportunità ha mosso la generazione del ’68 e alimentato le speranze di chi è venuto dopo. Le giovani generazioni dell’ultimo decennio non hanno perso il loro turno ed hanno nutrito il sogno di un mondo globalizzato nella giustizia sociale, nell’eguaglianza e non solo nel denaro. Non ci rassegnamo a vivere in un mondo dove milioni di persone muiono di malattie o di denutrizione mentre le case farmaceutiche tutelano con i denti i loro brevetti. E'da combattere un sistema in cui, i paesi del terzo mondo, anzichè investire in scuole e servizi per i propri cittadini, investono capitali nei titoli del tesoro dei paesi avanziati, così da pagare il nostro debito pubblico.
Per venire all''Italia bisogna riconoscere che in questi ultimi 20 anni non è passato solo un messaggio politico: gli italiani hanno cambiato il loro modo di vivere. Oggi ciò che caratterizza la vita quotidiana di milioni di persone è il concetto che si può e si deve fare a meno degli altri. Su questo concetto si è rafforzata l’idea che si possa vivere arrivando sempre prima, costruendo il proprio arricchimento personale e lavorando costantemente per apparire come si vuole essere.
L’operaio ha votato per un miliardario perché rappresenta quello che ognuno sogna di diventare. La destra quindi ha fatto sognare mentre il nostro Partito parlava esclusivamente in politichese: i buoni programmi ed i numeri che li argomentano non bastano ad attrarre un paese deluso.
Ecco quindi che il sogno di una vita sempre migliore per se e per i propri figli (ambizione massima ed irrinunciabile di ognuno) si concretizza in uno “status” da dimostrare agli altri e per raggiungere questo obiettivo diventa accettabile ogni sacrificio ed è naturale non pensare più al bene comune. Questo messaggio, così potente, non è stato contrastato in alcun modo.
Possiamo urlare i nostri programmi e dimostrare la massima coerenza delle nostre proposte fino a quando ne avremo le forze ma penso che se non si affronta il problema di come restituire “un sogno positivo” agli italiani, noi del PD non avremo mai modo di sfondare nell’elettorato di questo paese e vincere le elezioni.
La crisi economica e la difficoltà delle famiglie a risparmiare (basti pensare a tutte le vendite a rate) e l’esasperazione dell’apparenza (solo per citare alcuni esempi) dovrebbero portarci a pensare che questo stile di vita rende tutti meno tranquilli. I modelli culturali e di comportamento che sono diventati più “desiderabili” sono sempre più distanti dalla vita di tutti i giorni e impongono a ciascuno di noi dei ritmi insostenibili. Gradualmente abbiamo alimentato un’organizzazione sociale che, pur adottando forme democratiche, nella realtà esercita una pressione straordinaria sugli individui, intesi come produttori, consumatori e, per dirla con "Matrix" (non Marx), “come pile di un gigantesco sistema".
Di fronte a questa graduale assuefazione la politica è stata solamente spettatrice e probabilmente si è accorta di questa situazione quando ormai non si poteva più recuperare. Si può provare a far emergere il dubbio che la nostra natura non sia quella di proseguire su questa strada e tentare quindi un’inversione di rotta. Se ci pensiamo bene, al di là di qualche battuta nei comizi o di qualche accenno nelle interviste, l’ambizione da parte della politica di riflettere sul nostro modo di vivere è totalmente assente.
Questo dubbio e la riflessione che porta con se potrebbero essere proprio il punto di partenza per risalire la china. Sempre per citare Matrix, sul piatto delle persone dovrebbero esserci sia la “pillola blu” che quella rossa per dare l’opportunità a tutti di scegliere non solo “un altro paese”, come proponeva Veltroni nella scorsa campagna elettorale, ma un altro tipo di società.
La condizione umana è quella presentata dalla pubblicità: giovane, bella, felice e spensierata: l'esatto opposto della realtà che spesso è fatta invece di solitudine, conflitto e prevaricazione.
La politica in questi ultimi anni si è gradualmente allontanata dalla vita delle persone ed è diventata sempre più “pubblicitaria”, allineandosi più sulla “rappresentazione” della vita, piuttosto che sulla realtà.
Per questo non possiamo limitarci a sostenere ricette economiche a sostegno dei redditi ma dobbiamo proprio partire da una pesante aggressione alla differenza tra la realtà e la rappresentazione del mondo che viene proposta all’immaginario collettivo.
Il Governo spagnolo, ad esempio, ha recentemente vietato la promozione pubblicitaria di taglie di abbigliamento femminile al di sotto di un certo livello (42). Un provvedimento di questo genere ha un impatto culturale senza precedenti. Un’iniziativa come questa supera qualsiasi proclama politico. In ogni città di questo paese dobbiamo essere presenti con messaggi forti ed andare sulle televisioni intervenendo su questi argomenti, anche attraverso spot che utilizzino l’ironia e lo shock. Il mondo reale non è quello dei reality e se la politica ha l’ambizione di cambiare la realtà, deve mettere alla berlina i limiti dell’immaginario collettivo attuale, proponendo speranze realizzabili alle persone.
Mettere in discussione questo assetto non è semplice perché coinvolge interessi economici molto importanti. Un Partito politico può proporre leggi orientate al risparmio, attaccare pesantemente l’eccesso di pubblicità orientata ai bambini e ai giovanissimi e realizzare campagne che inducano le persone a riflettere sulla fatica che la tensione al consumo comporta.
La precarietà del lavoro e la crisi economica stanno mettendo seriamente in discussione questo stile di vita ed è compito della politica dichiarare apertamente che consumare facendo dei debiti è disastroso per qualsiasi società. Tra i concetti da aggredire citati, probabilmente l’individualismo è quello più complesso perché soddisfa il benessere immediato di qualsiasi essere umano.
Questo approccio culturale ha numerose conseguenze negative che sono sotto gli occhi di tutti: la considerazione dei nuovi cittadini come mera “forza-lavoro”, l’evasione fiscale praticata da tanti, il disinteresse per la tutela dell’ambiente, l’assenza di attenzione nei confronti degli anelli deboli della nostra società.
Sul ruolo che ha la paura nelle scelte politiche dei paesi occidentali si è già detto moltissimo. Si è parlato in particolare della paura del terrorismo, della criminalità e di tutti quei fenomeni che possono ledere la nostra incolumità e limitarci nelle nostre abitudini di vita. Oggi tuttavia le paure prevanti sono altre: il rischio di perdere un lavoro, di non riuscire a pagare un mutuo o di vedere l'azienda per cui si lavora saltare per un crack borsistico. Questa situazione di insicurezza e di precarietà, che colpisce in particolar modo la generazione meno rappresentata dalla politica, rende ancora più difficile ogni cambiamento politico. E'difficile aspettarsi da una generazione di precari una rivoluzione.
Il passato ci può fornire una straordinaria gamma di esempi in cui la precarietà e la paura hanno alimentato regimi autoritari ed impedito qualsiasi risveglio dell'opinione pubblica. Le persone spaventate non sono stimolate a pensare. Inoltre chi è spaventato è indotto a temere il prossimo, perchè lo ritiene un competitore capace di insidiare la sua precaria posizione. In questa ottica viene letta la presenza degli stranieri in Italia. I nuovi cittadini italiani in questo momento di crisi sono percepiti da molti come degli usurpatori, delle persone non necessarie che riducono le possibilità di salvezza di ogni italiano. La crisi, da alcuni vista come una condizione che favorisce il rinnovamento, potrebbe invece tramutarsi in un bavaglio per un'intera generazione. Inoltre l'istinto all'autodifesa potrebbe dare una potente spinta all'intolleranza, vista come possibile strumento per garantirsi uno stile di vita fortemente compromesso.
Quanto ho detto sin ora non credo siano solo riflessioni astratte. Un amministratore locale può contribuire a queste trasformazioni ogni qual volta concepisce un servizio o pianifica un nuovo quartiere. Reggio ha grandi quartieri (progettati negli scorsi decenni) pensati per favorire la coesione sociale e l'incontro tra le persone. I nuovi insediamenti di questi anni sembrano invece degli alveari senza identità, costruiti per isolare ognuno di noi nella propria cella. Non stupiamoci se nei nuovi quartieri i risultati elettorali sono diversi da quelli di un tempo. Possiamo intervenire davvero sulla realtà che abbiamo intorno e non rassegnarci al fatto che dobbiamo solo governare l'esistente.
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